Intervista di Fabio Colagrande
Lasciarsi istruire da ciò che si è patito, ripartire dalla consapevolezza della fallibilità della scienza, dell’imprescindibilità dei legami di fraternità e delle contraddizioni della globalizzazione. Nei giorni di un’attesa a volte insperata convalescenza, don Maurizio Chiodi, teologo morale, membro della Pontificia Accademia per la Vita, riflette con noi sulla sua esperienza di malato di Covid-19. Una sensazione di solitudine radicale, la gratitudine per gli operatori sanitari e la fede come compagna per attraversare il dolore, non per evitarlo. Rispondendo al telefono da Bergamo, dove vive, don Maurizio racconta prima di tutto cosa significhi per un religioso la prova di una malattia sconosciuta e potenzialmente mortale.
Ascolta l’intervista a don Maurizio Chiodi:
https://media.vaticannews.va/media/audio/s1/2020/04/22/16/135570030_F135570030.mp3
R.- L’esperienza della malattia del Covid-19 è quella di un tempo indimenticabile, innanzitutto per i luoghi dove vieni curato. Ricordo lo Spallanzani, il primario, il dottor Petrosillo, con tutti gli infermieri e gli operatori socio sanitari, il personale della pulizia, anche se incontrati solo attraverso la mascherina. È un tempo indimenticabile perché è un tempo difficile, un tempo di prova e di solitudine radicale. Questa malattia ti costringe subito all’isolamento: sei solo con te stesso, con l’accompagnamento di chi si prende cura di te. È una malattia che ti espone al rischio di morte: non sai mai quando guarirai e se guarirai. La prova credo consista soprattutto in questa sensazione di alternanza, di alti e bassi, di oscurità e di luce, un po’ un senso di intermittenza. E la domanda più radicale riguarda proprio la fede in Dio. Dove sono i suoi benefici? La malattia ti costringe a fare i conti con la morte e ti mette di fronte alle grandi domande della vita.
Quindi un’esperienza che mette in crisi la fede?
R.- La mette in crisi non nel senso che provoca delle domande teoriche riguardo a Dio, ma nel senso etimologico. La parola crisi in greco descrive quel momento in cui sei costretto a deciderti, a giudicare. E questa è una malattia che come tutte le altre – ma forse in modo particolare – ti chiede ancora una volta di fidarti. L’affidamento al Signore non è mai scontato. Anche perché la fede non è che risolva tutti i problemi, tutte le questioni teoriche. La fede è una scelta che ti introduce in un cammino e ti sostiene nell’attraversamento delle fatiche e delle prove. In questo senso ti consente di attraversare la crisi non di evitarla, di fuggirla.
È possibile rileggere questa sua esperienza personale in chiave pasquale?
R.- Mi limito a un solo aspetto dei tanti che si potrebbero toccare. Gesù, nella Lettera agli Ebrei, al Capitolo 5, versetto 8, dice che “Pur essendo Figlio, imparò l’obbedienza da ciò che patì”. Credo che il Covid-19 in chiave pasquale sia una specie di invito a lasciarsi istruire da ciò che patiamo. Per chi è stato malato è importante lasciarsi istruire da questo patire: non dimenticarlo, non metterlo via come se non fosse avvenuto, come se avessimo chiuso una parentesi per poi ripartire a fare le cose di prima. E che cosa vuol dire questo? Ricordare il bene ricevuto e il male attraversato, sofferto. In fondo questa è la Pasqua di Gesù che muore lasciandosi istruire da ciò che patisce e a quel punto si apre la speranza di un oltre che nasce dal dono di Dio: l’oltre della Pasqua.