Maria Corredentrice

Papa Francesco e il ruolo corredentore di Maria, la “Donna della salvezza”
I teologi Robert Fastiggi e Mark Miravalle riflettono su che cosa vuol dire che la Madre di Dio è Corredentrice

L’omelia di Papa Francesco per la festa di Nostra Signora di Guadalupe il 12 dicembre 2019 ha generato nuovo interesse e polemiche sul titolo mariano di Corredentrice. L’omelia del Santo Padre è stata data in spagnolo in maniera spontanea ex tempore. Nell’omelia, ha fatto un riferimento al titolo di corredentrice: «Fedele al suo Maestro, che è suo Figlio, l’unico Redentore, Lei non ha mai voluto togliere nulla a suo Figlio. Non si è mai presentata come corredentrice. No, discepola» (Fiel a su Maestro, que es su Hijo, el único Redentor, jamás quiso para sí tomar algo de su Hijo. Jamás se presentó como co-redentora. No, discípula).

Il nostro Santo Padre è del tutto preciso nel dichiarare che Maria non si è mai «presentata» come «corredentrice», né nel contesto dell’Annunciazione, né negli eventi storici di Guadalupe, argomento della sua omelia. Questo, tuttavia, non nega di per sé la legittimità dottrinale del titolo di corredentrice quando viene usato con il suo significato proprio nel riferirsi alla partecipazione unica di Maria alla Redenzione storica compiuta da Gesù Cristo, l’unico divino Redentore.

Anche il nostro Santo Padre ha perfettamente ragione quando afferma che «Non ha mai voluto togliere nulla a suo Figlio». Fortunatamente, quando Papa San Giovanni Paolo II e Papa Pio XI prima di lui hanno ripetutamente usato il titolo, «corredentrice» per la Madonna, allo stesso modo non ha cercato di prendere nulla da Gesù e di darlo a Maria, ma piuttosto di identificare la cooperazione unica di Maria nell’opera redentrice compiuta da Cristo.

Il titolo di Corredentrice cerca di rappresentare, in una parola, la dottrina ufficiale della Chiesa della partecipazione impareggiabile di Maria alla Redenzione compiuta da Gesù Cristo, unico Divino Redentore, che viene ripetutamente riproposto nel Concilio Vaticano II (Lumen gentium, 56, 57, 58, 61) e dal Magistero pontificio degli ultimi tre secoli.

SOLITUDINE MEDIATICA E CROCE

Solitudine mediatica e croce

Padre Fernando Taccone Passionista

Il tema è un approfondimento dello studio sul Getsemani. Il Getsemani di Gesù, come ogni Getsemani dell’uomo contemporaneo, evoca la notte, il silenzio, la solitudine, il dramma, ma anche l’opportunità della salvezza (cf. Mt 26,36-46; Mc 14,32-42; Lc 22,40-46). L’esperienza dell’uomo tecnologico sta creando un Getsemani digitale poiché genera zone di solitudine in famiglia e in società.
La solitudine mediatica è il fenomeno che è dentro la rivoluzione culturale della innovazione tecnologica ed è all’origine di profonde trasformazioni sociali con una nuova visione dell’uomo e della cultura. I social média sono semplici strumenti che possono aiutare la comunicazione, ma non possiedono per sé stessi la forza di realizzarla. Quando da semplici mezzi, diventano fini, l’uomo sperimenta la nausea esistenziale (Sartre) e la vanità di ogni cosa (Qo 1,1). Vengono così cambiate profondamente le relazioni umane divenendo molto spesso disumanizzanti.
Ricordo soltanto alcuni aspetti biblici inerenti alla relazione tra solitudine e croce.
Nella Scrittura, il tema della solitudine è collegato al motivo del “rigetto” da parte di Dio, in modo particolare nei libri profetici15. Dal momento che Dio, soprattutto nei Salmi, è presentato come Colui che risponde, ascolta, salva, vede, protegge, sostiene, interviene, allora emerge che Egli abbandona soltanto colui che lo abbandona ed anzi verso costui manifesta la sua collera16. Soprattutto Geremia mette particolarmente in luce il rapporto tra l’abbandono da parte di Dio con l’infedeltà del popolo all’alleanza17, ma si sottolinea anche che tale abbandono non è per sempre18.
In altri testi biblici l’abbandono è collegato al tema del “nascondimento” di Dio, ma esso è inteso positivamente come Presenza che si comunica nell’assenza, una presenza nascosta o “elusiva”. Metaforicamente si può dire, ad esempio, che Dio “tace”19, ma appunto come chi tace è presente, così è presente chi si nasconde. Il Dio d’Israele è un Dio che si rivela e si nasconde nello stesso tempo, che si rivela proprio nel suo nascondimento.
Ci sono invece altri testi nei quali l’abbandono e il nascondimento di Dio sono sperimentati da uomini giusti, come nel caso di Giobbe o del Servo sofferente di Is 52,13–53,12. In particolare, nel IV Canto del Servo di Jahvé siamo in presenza di un giusto che non soffre per i suoi peccati, ma per quelli del popolo. Anche nei libri sapienziali20, la persecuzione dell’uomo giusto fa dire agli stolti che Dio non esiste. In tali testi, la solitudine sperimentata dall’uomo giusto non significa necessariamente non-presenza di Dio, ma può significare anche nascondimento, realtà che è sempre momentanea.
In conseguenza di ciò, si possono rilevare due dimensioni fondamentali della solitudineː quella dell’amore e quella del dolore, intimamente connesse tra loro. Si ama, infatti, e si soffre da soli, anche quando non si è soli. La ricerca amorosa ama la solitudine, perché solo nella solitudine e

15 Cf. Is 41,8-20; Gr 30,11.17 …; –16 Cf. Dt 31,17. – 17 Cf. Is 2,6; 59,1-20; Gr 5,19; 7,15; 9,1; 14,19; 23,33.39; 33,19-26; Ez 8,12; 9,9; 29,3.5.9; 31,11; 32,4; Os 1-3; Mi 3,4). – 18 Cf. Dt 4,25; Lv 26,44; 1Re 8,46-50; 11,12; 2Re 22,16-20; Ne 9; Tb 13,6. – 19 Cf. Sl 28,1; Is 42,14; 62,1. – 20 Cf. Sap 2,10ss.