PARLA CHI HA PROVATO UNA MALATTIA SCONOSCIUTA E POTENZIALMENTE MORTALE

Dopo Auschwitz l’uomo si è chiesto dov’era Dio. Oggi, di fronte a questa pandemia, verrebbe spontaneo porsi la stessa domanda…

R.- Direi che è importante domandarsi di quale Dio parliamo. Dio non è colui che risolve i tuoi guai, tappando i tuoi buchi, evitandoti le difficoltà. In fondo questa è la domanda della moglie di Giobbe a Giobbe: “Dov’è il tuo Dio? Tu che ti sei tanto fidato di lui adesso guarda un po’ come sei ridotto”. Giobbe ingaggia con Dio una lotta, un dialogo dove non gli risparmia proteste, domande. Arriva ad accusare Dio, a chiamarlo in causa. È come se Giobbe ci dicesse che il dolore, il Covid-19 nel nostro caso, ponga davvero la domanda radicale: perché il dolore? E questa domanda fa nascere la questione della fede: questo Dio è affidabile? Alla fine Dio risponde a Giobbe ponendogli lui delle domande. Gli chiede di alzare gli occhi e di guardare il mondo: le sue bellezze affascinanti e anche ciò che provoca inquietudine. Giobbe si mette la mano sulla bocca, capisce cioè che avrebbe dovuto tacere. Credo che la sorprendente risposta di Dio a Giobbe sia la risposta di Gesù. La risposta di Dio al dolore e alla morte è quel corpo lì sulla croce, il corpo di Gesù che è Dio. Un Dio che soffre con noi e per noi, ama sino alla fine e apre una luce di speranza nella Pasqua.

Papa Francesco ha affermato che nella prova che stiamo attraversando ci siamo ritrovati fragili. Questa consapevolezza può essere un punto di ripartenza?

R.- Credo che questa pandemia abbia messo in crisi tre miti della società occidentale e della nostra cultura in particolare. Prima di tutto quello della potenza invincibile della tecnica e della scienza, perché la scienza non ci ha salvaguardato da questa pandemia e non poteva farlo. Il mito dell’incrollabilità del sapere tecnico-scientifico è stato sicuramente messo alla prova. Ma ha messo in crisi un’altra idea facilmente diffusa nella nostra cultura: quella che l’io, l’Ego, basti a se stesso. Questa malattia mostra invece in modo efficace il nostro legame con gli altri: quando prendiamo il contagio o quando sono gli altri che si prendono cura di noi, quando patiamo la solitudine. Infine questa malattia ha messo un po’ in rilievo le ambiguità della globalizzazione. Ciò che ci sembrava così lontano – un virus partito dalla Cina – lo abbiamo scoperto tra di noi solo quando già da tempo si era infiltrato come un nemico invisibile. Credo che proprio da qui possiamo ripartire: dal non dimenticare questa fragilità, dal lasciarci istruire, proprio come Gesù, da ciò che abbiamo patito.

Anche la Chiesa può uscire rinnovata da questa crisi?

R.- Il principio della Carità direi che è la testimonianza che noi cristiani possiamo dare in questo tempo così difficile di fragilità. Mostrare cioè come la forza dei legami tra di noi, la capacità di perdonarci, andare aldilà dei conflitti, la cura reciproca, sia la strada sulla quale camminare come Chiesa e anche come società civile. Il superamento di una visione molto autocentrata, in cui ciascuno pensa di risolvere le cose da solo. Ritrovare la forza dei legami è in fondo quello che Gesù chiede alla comunità cristiana: amatevi gli uni gli altri come, e perché, io ho amato voi.

(da Vatican News, https://www.vaticannews.va/it.html , giovedì 23 aprile 2020)