nel silenzio si ha la possibilità di vivere in profondità il mistero dell’unione. Il profeta Amos, ad esempio, descrive l’amore gratuito e misericordioso di Dio per il suo popolo per mezzo del simbolismo nuziale. Dopo aver demolito ogni appoggio umano alla sua sposa infedele, Dio le promette un nuovo inizio: «Perciò, ecco, la attirerò a me, la condurrò nel deserto e parlerò al suo cuore» (Os 2,16).
La tradizione ebraica conosce quattro notti sante (Targum palestinese, Esodo 12,42): la notte della creazione; la notte di Abramo e del sacrificio di Isacco; la notte esodale; la notte del Messia.
LʼExultet pasquale identifica questʼultima notte con la morte e risurrezione del Messia, Cristo Gesù: «O notte veramente gloriosa, che ricongiunge la terra al cielo e lʼuomo al suo creatore!».
La solitudine della notte non è infeconda, ma custodisce nel suo silenzio il germe della vita, come evidenzia il Vangelo di Giovanni: «Se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto» (12,24).
La notte della solitudine e del dolore può, quindi, avere senso solo se questa è riempita dalla speranza dellʼincontro, che illumina ogni solitudine. «Non vogliamo poi lasciarvi nell’ignoranza, fratelli, circa quelli che sono morti, perché non continuiate ad affliggervi come gli altri che non hanno speranza» (1Ts 4,13). I pagani sono definiti da Paolo: «senza speranza e senza Dio in questo mondo» (Ef 2,12).
I luoghi più significativi che ci rivelano il mistero della solitudine dell’uomo assunta dal Figlio di Dio sono il Getsemani e il Calvario. Nel Getsemani (Mt 26,36-46), Gesù vive nella solitudine il dramma della prova suprema e del sì alla volontà del Padre. Anche se nel testo sono nominati i discepoli e sono coinvolti nell’azione, tuttavia essi sono relegati nell’ombra: il brano evidenzia che tutti dormono, nonostante fossero stati chiamati ad essere inseriti in un rapporto vitale e costante con Gesù. Gesù sperimenta lʼestraneità dei discepoli, anche se non ancora quella del Padre. Il suo ripetuto, penoso e inutile cercare il conforto dei discepoli ci mostra un Gesù simile in tutto a ciascuno di noi. Egli, tuttavia, incontra nella preghiera al Padre il suo appoggio sicuro: «Padre mio, se questo calice non può passare da me senza che io lo beva, sia fatta la tua volontà» (Mt 26,42)
È sul Calvario che assistiamo all’estrema solitudine vissuta da Gesù, nell’abbandono sulla croce in cui Egli manifesta l’Essere-Amore come infinita onnipotenza che ha in sé la possibilità di farsi kènosi infinita, di farsi “nulla” nel dono di sé, in quanto amore, restando per questo l’Infinito, il Tutto, l’Essere.
In Gesù Crocifisso Dio assume fino in fondo ogni «perché» dell’uomo che si sente solo e abbandonato, e dà una risposta non sottraendo il Figlio dalla morte: Dio manifesta la sua capacità di «vuotarsi di se stesso» (cf. Fil 2,6); così il grido inaugura il mondo nuovo e la professione di fede del centurione ne è la risposta: «Veramente quest’uomo era Figlio di Dio» (Mc 15,39). Il Figlio dell’amore nel quale il Padre ha posto ogni compiacenza, il diletto, può adesso essere ascoltato attraverso quel forte grido: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato» (Mc 15,34).
La poesia di Salvatore Quasimodo, “Ed è subito sera”, ci sembra attualizzi la solitudine di ogni uomo assunta dal Cristo sulla croce, in modo particolare, quella della morte:
Ognuno sta solo sul cuor della terra
trafitto da un raggio di sole:
ed è subito sera.
Il buio della notte cristiana non è, come nella poesia, l’ultima parola. Esso contiene, infatti, la speranza di un nuovo mattino, anche se è ancora buio (Gv 20,1). La morte di Gesù squarcia non solo «il velo del tempio» (Mc 15,38), «abbattendo il muro di separazione» (Ef 2,14), cioè l’inimicizia tra gli uomini, ma anche il buio dell’incredulità e della incomunicabilità, riaccendendo